La Chiesa di Santa Croce


Parma, all’alba del XIII secolo era una città in pieno sviluppo. Una cattedrale da poco ripristinata nella sua integrità architettonica, con uno straordinario apparato scultoreo e un pontile ancora insuperato e firmato da “Scultor Benedictus”; un battistero che da pochi anni lo stesso artista aveva incominciato. E poi venivano il palazzo del Capitano e del Podestà, il nuovo palazzo Vescovile voluto da Grazia.

Dall’altra parte della città la cinta delle mura era in costruzione. È il momento in cui le comunità avvertono la necessità di una attrezzatura difensiva a protezione dei nuovi quartieri, come a ponente, dove la città aveva da tempo superato i limiti dell’antica Porta Piacenza.

Ai confini occidentali della città, in linea con il tracciato decumanico, sotto un patronato benedettino, sorgeva una nuova chiesa intitolata alla Croce di Cristo.

Una epigrafe, non più esistente, era rimasta a testimoniare il giorno solenne della consacrazione del nuovo tempio, indicandolo nel 21 agosto del 1222.

Alle kalendae di giugno dell’anno 1228 era ancora il vescovo Grazia a presenziare con grande solennità alla consacrazione del tempio.

Si proclamava il riconoscimento delle indulgenze a chi visitasse il tempio; e ciò era il segno di come solo in quella data la chiesa cominciasse a essere officiata.

Più antico invece dovrebbe ritenersi l’apparato scultoreo che ritroviamo ancora presente sui capitelli a coronamento dei pilastri della navata centrale.

Quindi dovette trattarsi di un cantiere in attività per qualche decennio tra XII e XIII secolo.

La chiesa quale è giunta sino a noi presenta tre navate, delle quali la maggiore di larghezza doppia rispetto a quelle laterali, ripartite in tre campate, quindi un presbiterio e un’abside profonda, di epoca notevolmente posteriore.

La ricostruzione ipotetica della chiesa antica indica nella pianta a tre navate e sei campate quella più probabile, pianta andata poi distrutta a motivo dell’abbandono e della decadenza. La chiesa poteva avere un avancorpo rispetto la facciata attuale, forse con funzione di nartece.

Potremmo trovare conferma di questo nella interconnessione dei pilastri appoggiati alla controfacciata, che non sembrano interpretabili come semplici contrafforti, bensì parte di un’architettura più ampia e complessa.

Per quanto riguarda i capitelli e la decorazione plastica l’autore è da cercare tra le maestranze un poco ritardatarie che accompagnarono i lavori del grande cantiere del duomo di Parma, attivo prima degli antelamici, ma ancora in essere per lungo tempo nel corso del XII secolo nei lavori dei matronei. L’arcaismo con il quale si stilizzano le figure riprodotte nella serie dei capitelli di Santa Croce richiama – secondo A.C. Quintavalle – alcuni artefici della cattedrale di Parma (i cosiddetti Maestro della Vendemmia e Maestro dell’Apocalisse, entrambi discepoli del Maestro dei Mesi della cattedrale), con uno scarto di valore – aggiungiamo – soprattutto nel caso dei capitelli dell’ordine superiore (dove non mancano intrerventi di restauro).

Restano interessanti le conclusioni alle quali perveniva Quintavalle a proposito di questo ciclo di sculture: “…la chiesa di Santa Croce è un testo assai complesso, ma è un testo da datare ben avanti quanto di solito si ritiene; è la riprova cioè dell’estensione che la riforma iconografica di esperienza borgognona importata dal Maestro dei Mesi …aveva trovato eco anche in città e che la progettazione di edifici… più complessi rispetto alle tradizioni del secolo XI era ormai avanzata pure nelle chiese minori” (Quintavalle 1975, p. 90).

Ricorre in particolare il gusto per una iconografia nella quale risultano consueti gli “sdoppiamenti speculari”. In questo caso una figura centrale abbigliata con una lunga veste intreccia le braccia e diventa bicefala. Gli equilibristi che camminano sulle mani a testa all’ingiù sono creature mostruose, come gli sciapodi, collocati agli spigoli laterali del capitello, venendo ad assolvere oltre che a un valore simbolico anche a una palese funzione esornativa.

Gli interventi di restauro novecenteschi, nella riproposizone di modelli neomedievali, pur con evidenti limiti di metodo, hanno riportato a visibilità parte delle originarie decorazioni romaniche.