Il Vescovado
Restano visibili di questo primo nucleo, nel ramo settentrionale di vicolo del Vescovado, una torre e un grande portale con gli stipiti in blocchi lapidei romani reimpiegati, nonché, più in alto, alcune tracce di bifore con archetti bicromi in conci di cotto e pietra bianca alternati. Questa porzione di fabbricato, unitamente all’attiguo edificio addossato a nord-ovest (attuale centro di analisi cliniche e un tempo xenodochio), può essere ritenuto il più antico della città. Fino al 1172 il palazzo non subisce radicali innovazioni, ma dopo quell’anno il vescovo Bernardo II (1169-1194) inizia una campagna di lavori di sovralzo e di ampliamento verso est conclusi probabilmente da un torrione nell’angolo nord-est. L’edificio conserva ancora l’aspetto di rocca turrita e difesa, per di più, dalle fosse del Canale Maggiore che lo contornano. Elementi strutturali di tale fase costruttiva, emersi durante i lavori di restauro (1957-1959) delle logge cinquecentesche del cortile interno, sono ancora chiaramente rilevabili nel sottotetto del corpo nord.
Ma le addizioni più notevoli alle strutture del palazzo sono da ascriversi al fiorentino vescovo Grazia (1224-1234) il quale, essendosi ormai appianata ogni contesa fra comune e vescovo, vuole che l’edificio perda le sue caratteristiche difensive per aprirsi verso la città.
Egli ne fa erigere, fra il 1232 e il 1234, la grande facciata su piazza Duomo (riportata alla luce negli anni venti del secolo scorso).
Testimone della costruzione è Salimbene de Adam il quale annota nella sua Chronica: “Anno Domini MCCXXXIII murabatur palatium Parmensis episcopi, quod est ante frontispitium maioris ecclesiae[…]”. Secondo Pelicelli (autore, nel 1922, della prima fondamentale monografia sul palazzo Vescovile) il costruttore della facciata su piazza Duomo fu un certo Rolandello, o Rolandino; detta facciata sopravanza di circa 4,60 metri la presunta torre di Bernardo e prosegue per 11-14 metri oltre il limite sud del corpo di fabbrica attribuito allo stesso Bernardo. Al piano terreno è realizzato un severo porticato con pilastri in grossi conci di pietra. Il primo piano su piazza è forato da undici bellissime trifore archivoltate, scompartite da esili colonnine binate in marmo di Verona e arricchite nel timpano da pàtere in ceramica.
Due identiche trifore prospettano nel risvolto della facciata su via al Duomo. La mancanza di forature al secondo piano nella parte destra del fronte sulla piazza denuncia lo sviluppo della grande sala che era coperta da un terrazzo. Grazia, il quale, dice Salimbene, “[…] a parmensibus bonus episcopus habebatur, siquidem non fuit rerum episcopalium dissipator sed potius agregator et conservator […]”, non si limitò a costruire l’ampliamento verso piazza Duomo ma edificò o sopraelevò anche tutto il lato ovest, prospiciente il ramo di vicolo del Vescovado. Durante i lavori di restauro del cortile interno (1957-1959), vennero alla luce, al primo piano sul muro di fondo del loggiato del cortile, due residui di trifore, una delle quali ancora dotata di colonnina in marmo rosso di Verona e capitello in pietra. Quest’ultima trifora è riccamente decorata a tempera, nel timpano intonacato, con motivi geometrici policromi (colori rosso, grigio e bianco) e suddivisione in due metà di diverso disegno. Fra i due reni degli archetti di sinistra è collocata una bella pàtera ceramica, decorata in smalto verde e perfettamente integra, mentre in sommità della luce centrale esiste il frammento di altra pàtera in smalto giallo.
Le dimensioni delle trifore del cortile sono pressoché uguali a quelle delle tre al secondo piano delle facciate sulla piazza; ciò ne conferma la contemporaneità di costruzione. La facciata principale verso il duomo era su due livelli, entrambi probabilmente coronati da merlature.
Non si hanno notizie di ulteriori modificazioni al palazzo sino alla seconda metà del XV secolo, quando il vescovo riminese Sagramoro de’ Sagramori (1476-1482) interviene pesantemente chiudendo, addirittura, il portico a piano terra per ottenervi delle stanze. Ma ben più sostanziali modificazioni vengono apportate sotto l’episcopato del cardinale Giovanni Antonio Sangiorgio (1499-1509), milanese, detto anche “il cardinale Alessandrino”. Poiché la fronte dell’edificio è di due diverse altezze sovralza la parte più bassa, corrispondente alla grande sala del primo piano, ne smussa i beccatelli di coronamento, elimina la merlatura e costruisce in gronda un imponente cornicione rinascimentale in terracotta. Ai lati sud, ovest e nord del cortile interno vengono addossate le attuali logge a due piani, fatte riemergere dal restauro operato fra il 1957 e il 1959. L’intervento del Sangiorgio è testimoniato dall’esistenza dei due stemmi sui lati opposti del cortile e dalle sue iniziali in diversi architravi di porte del piano terreno e del primo piano. Nel 1509 il papa Giulio II nomina amministratore perpetuo della Chiesa di Parma, il cardinale Alessandro Farnese (1509-1534), il futuro papa Paolo III, che contribuisce alla trasformazione del palazzo in dimora cinquecentesca. Per oltre tre secoli, dalla riforma di Grazia fino alla seconda metà del Cinquecento, il palazzo serve a ospitare personaggi illustri di passaggio e autorità parmensi. L’ultimo a utilizzarlo come propria dimora è il duca Ottavio Farnese che lo lascia solo dopo avere sistemato un proprio palazzo nel gruppo di case comprese fra strada San Barnaba e il torrente. Si hanno notizie anche nel XVII secolo di interventi di modifica e di decorazione interna per opera dei vescovi Girolamo Corio (1650-1651), milanese, Carlo Nembrini (1652-1677), anconetano, Giuseppe Olgiati (1694-1711), nobile comasco. L’intervento più massiccio viene attuato nel XVIII secolo, a opera del vescovo Camillo Marazzani (1711-1760), nobile piacentino, che trasforma definitivamente l’edificio in anonimo palazzone barocco, con modifiche alla facciata verso piazza Duomo “[…] su ben formato disegno”, dice F. Sacco, “di un nostro chiarissimo cittadino, dilettante di quell’arte”, ricostruendo lo scalone di accesso in “pietre vive” e compiendo radicali innovazioni all’interno.
L’incidenza più negativa della riforma settecentesca è, senz’ombra di dubbio, quella attuata sul cortile del Sangiorgio: le logge del primo piano sono chiuse con muratura creando al centro banali finestre rettangolari. Le colonne in arenaria del piano terra, vengono incamiciate con solida muratura previa scalpellatura dei capitelli e delle basi. Viene pure tamponato il portico del corpo principale a est. Da allora e fino agli anni venti del XX secolo gli interventi riguardano solo opere di ordinaria manutenzione.
È il vescovo Guido Maria Conforti (1907-1931) che nel 1911 segnala all’ufficio regionale per la conservazione dei monumenti lo stato di grave dissesto statico dell’edificio. Ma la prima guerra mondiale mette tutto a tacere. A opera della soprintendenza ai monumenti di Bologna, viene operato, fra il 1925 e il 1926, il restauro della facciata verso via al Duomo e di due campate di risvolto sulla piazza e dal 1935 al 1939 ha luogo il restauro della parte basamentale dell’edificio e del salone delle adunanze al primo piano. Occorre arrivare agli anni 1957-1959 per vedere attuato il completo restauro del cortile che viene eseguito sotto la direzione della soprintendenza di Bologna. Dopo di allora si eseguono opere di restauro, consolidamento e straordinaria manutenzione alle ali ovest, nord e sud.